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Versi in libertà del poeta cinese e candidato al Nobel Yang Lian
Yang Lian, che a cinquantotto anni può essere considerato il più grande poeta cinese di oggi con una candidatura al Nobel assegnato poi a un altro grande esule, Gao Xingjian, è in Italia. A Pietrasanta dove i suoi versi saranno detti oggi in piazza e dove incontrerà domani i suoi lettori. «L'esilio (dice) mi ha fatto comprendere che la lingua cinese è una risorsa del pensiero come ogni altra. Da essa ho tratto ispirazione per crearne una nuova». In esilio, attualmente vive a Londra, Yang Lian lo è dai giorni di Tienanmen. Da quel momento questa è diventata la condizione della sua esistenza e della sua scrittura: «Ora posso osservare il mondo, incluso me stesso, da un'altra prospettiva, come un Buddha: non c’è più differenza tra l'essere in Cina o fuori, tra gli altri e me, un’altra lingua».
Partiamo dall’occasione di Pietrasanta. In quale modo pensa che le sue parole, incise sulla piazza del Duomo attraverso il gioco della luce ideato da Marco Nereo Rotelli, possano permettere una riflessione sulla necessità del rispetto dei diritti umani?
«La poesia è nata, e continua a vivere, per la libertà del pensiero. Da quella classica a quella contemporanea la sua natura non si è trasformata. Oggi è anche più importante. Con la globalizzazione, il dominio del denaro e l’arbitrio del potere schiacciano l'individuo. La poesia diventa la sola opposizione a una condizione impossibile».
Il verso finale di 1989 dice: «Questo è senza dubbio un anno perfettamente ordinario». Davvero singolare se si pensa alla tragedia di Tienanmen cui allude?
«Il potere della poesia è sapersi interrogare in profondità, anche su un evento come quello. I miei versi si muovono su questa linea: che cosa ha significato, dove sono finite le nostre memorie nel momento in cui siamo stati sorpresi e azzannati dal massacro di Tienanmen. Il 1989 è non solo un evento singolo, ma ha rievocato una condizione eterna che riaffiora».
Lei è un esule, un viaggiatore, un poeta. Quale tipo di luogo potrebbe avere la poesia in un mondo globalizzato?
«Non siamo abbarbicati alla nostra radice. La radice cresce con il crescere delle nostre domande, dovunque ed in qualunque momento. La poesia è tanto più vasta del globale, attinge alla profondità della vita. La domanda è diversa, semmai: come la scoperta del globale diventa il luogo, il cuore della Poesia».
In Omaggio alla poesia lei scrive: «Sono poeta / se voglio la rosa fiorire, fiorirà / la libertà ritornerà». Sembra molto fiducioso sul potere dei suoi versi
«La poesia non è mai separata e asettica. E’ molto viva e vitale. Non indica nessuna strada particolare, ma è l'indicazione dell’esistenza. Riguarda il destino più profondo, anche nella più tremenda delle situazioni. Ho scritto quei versi in Cina dopo la Rivoluzione Culturale affrontando una crisi spirituale mai tanto forte».
Il cuore del suo lavoro di intellettuale e di poeta è fare i conti con la tradizione?
«La Tradizione vuol dire solo uno sguardo a un lungo e annoiato passato, se viene a mancare l'energia individuale, creativa. Rispetto ad essa, Dante o Qu Yuan, il massimo poeta cinese vissuto 2300 anni fa, hanno affrontato le nostre stesse difficoltà. Scrivevano i loro versi nel solco della tradizione, ma sempre e per sempre attuali. Per questa ragione, mi sento in sintonia non solo con una tradizione, ma con una universale tradizione poetica»
Lei ha detto: «La poesia ci obbliga a accettare la realtà». Quale tipo di realtà?
«Tutta la realtà può essere considerata impossibile. La mia aspirazione - se vuole la mia lode ad essa, cioè alla realtà- inizia con l’impossibile».
Nella Cina i suoi libri circolano con qualche tipo di censura?
«L’ultima dolorosa esperienza mi è capitata lo scorso anno, quando è stato pubblicato un mio libro autobiografico. Tremila copie sono state ritirate il primo giorno a causa del primo capitolo l' Elegia di Realtà. Vi tratto uno dei cinque temi scelti: Appunto la Realtà, poi viene l'amore, la storia, la casa, la poesia. Avevo iniziato il libro partendo da Tienanmen, non dagli slogan ma nella profondità dell’esperienza, quasi come una sfida in un tempo in cui nessuno legge più poesie. Ma i censori hanno letto bene e non hanno perdonato. Se le reazioni fossero state morbide o se si fosse detto che il mio libro era buono, avrei dovuto cominciare a interrogarmi sulla sua qualità. Preferisco questa tragedia censoria al plauso sospetto».
Lei mai ha pensato di tornare a vivere in Cina?
«Perché dovrei? La Cina è solo una piccola parte del mio mondo poetico. Mi sono sempre considerato un insider nella letteratura cinese. E’ una possibilità rara e preziosa: la poesia è la mia lingua madre unica. Vive con me: perché dovrei tornare per cercarla?».
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